Le macchine ribelli (parte III)

Mi mossi rapidamente prima da una lato, poi dall’altro, mentre le lame delle bambole impazzite sibilavano sopra la mia testa, ai miei fianchi, davanti il mio naso, e altrettanto rapidamente ero in grado di rispondere sparando colpi dalla semi-automatica d’ordinanza. Certo, non che fossi proprio in missione, però delle volte bisogna agire anticipando la burocrazia; del resto credo che mi sarà perdonata una cosa del genere se riuscirò a scoprire cosa si nasconde dietro queste macchine ribelli. Colpii in maniera precisa l’occhio di quella che mi stava di fronte, mentre nelle mie retine apparivano i puntatori di bersaglio contro le altre pussy slave che andavano scagliandosi contro di me. Ne feci fuori altre due, sparando l’una al centro del petto e l’altra staccandole con un calcio netto la testa che ora stava rotolando verso il fondo della stanza. Mi nascosi dietro una cassa lasciando cadere il caricatore vuoto che emise un suono sordo e metallico. Nel frattempo ne immettevo uno nuovo sotto il calcio dell’arma. Ho fatto bene a non portare con me Josh, non sono lavori adatti al suo cuore debole e al corpo ancora troppo umano. E anche l’arma che ancora si possa dietro… un revolver… diamine, con così pochi colpi! No, non potevo proprio portarmelo appresso. Non ne avvertii la presenza, non so se per merito del robot o per mia distrazione. Nel momento in cui uscii dal nascondiglio con un movimento rotatorio, una lama affilatissima penetrò nel mio braccio robotico staccandolo di netto all’altezza del gomito. E per fortuna non si trattava di quello che impugnava l’arma. Sparai tre colpi, rapidi, in successione, e la bambola cadde a terra dimenandosi. Col peso del corpo sul piede destro le schiacciai il cranio vedendo come si divideva in un arlecchino di fili multicolore. Dalla retina destra comparve la mappa del mio corpo indicando come il mio braccio sinistro non rispondeva più ai comandi. Mi venne da pensare che da tempo non provo più alcun tipo di dolore fisico, se non qualche leggera sensazione che non saprei descrivere in maniera precisa, come un fastidio si potrebbe descrivere; e nemmeno in questo caso percepii dolore. Colava del sangue e del liquido nerastro dal moncherino del braccio mutilato, e piccoli filamenti di rame fuoriuscivano emettendo piccole scintille. Fui un principiante, lo devo ammettere, e dovevo stare più attento, soprattutto ora che avevo un arto in meno. Ma quella stanza era piena di corpi spenti ed inermi, e difficile era prevedere esattamente da dove fosse uscita la prossima minaccia. Forse da davanti? O magari da dietro le mie spalle… o forse ancora dai lati. E quali delle tante che sono qui intorno? Il calcolatore nel mio cervello ne ha individuate circa una cinquantina solo in quella stanza, senza mettermi in guardia sul fatto che mi trovavo in una situazione alquanto pericolosa, alquanto bizzarra. Riposi la pistola e da dietro le spalle impugnai il mitragliatore che mi ero portato per l’evenienza, utile a maggior ragione proprio in quel momento, quando la situazione sembrava essere quasi ad un punto di rottura. E quando aprii la porta successiva, sparando sul computer che ne determinava la chiusura stagna, presi coscienza di quanto fosse stato stupido quell’atto eroico e militaresco che Anna mi avrebbe impedito, se fosse stata qui. Circa una ventina di robot mi stavano aspettando dall’altra parte, rapidi e letali e belli, con lame e stiletti impostati nelle braccia e nelle dita, arti prolungati donatori di morte. Il sangue mi schizzò in faccia mentre massacravo di proiettili i primi che vennero incontro. Ne feci fuori quattro ed il quinto lo colpii al centro dello sterno con il mitragliatore ormai scarico. Staccai con un paio di movimenti veloci la testa meccanica e gettai alle spalle quel mucchio di rottami. Quando mi rigirai, tuttavia, ne vidi arrivare altri due, e dietro di loro altri e altri ancora. E non avevo tempo di estrarre la pistola. Come non avevo tempo di pregare, del resto. Erano così rapidi. I corpi piccoli, gli arti meccanici agili. E io invece sono una macchina d’assalto. Una macchina di potenza. Ho fatto bene a non portarmi Josh. Sarebbe morto prima di arrivare fin qui probabilmente. E temetti fosse arrivato il mio momento.
Schivai il primo fendente ed evitai il secondo, ma l’affondo di un robot che aveva stiletti alle punte delle dita (stiletti di circa quindici centimetri) mi ferì alla guancia. Avesse mirato un po’ più su mi avrebbe staccato un occhio. Questioni di pochi attimi, pensai, giusto il tempo di rispondere a qualche colpo e di subirne qualcuno più superficiale. Poi sarebbe giunta la mia ora. Erano troppi. Maledizione, erano veramente troppi! E mentre mi ritrovavo impegnato a dannarmi l’anima per la stupidità tramutatasi in azione, colpii in pieno volto una delle macchine che avevo davanti piegandone la mascella artificiale. Furono distratti da qualcosa, tutti quegli androidi. E proprio quando iniziai a chiedermi cosa stesse succedendo, proprio quando gettai uno sguardo in fondo a quel gruppetto di venti manichini killer, vidi uno di loro farsi strada a colpi di lama. Una lunga lama che spuntava al posto dell’arto destro, circa all’altezza del gomito. Aveva i capelli rossi, la pelle bianchissima come quella di una bambina. E da lontano sentii urlare il mio nome: «Raven! » disse la voce tenue ed infantile. E poi lo ripeté ancora. E ancora. E ancora. Sempre più forte e sempre più decisa. Veniva ferito dai suoi simili ma non accennava a fermarsi, regalando colpi mortali e meno verso ogni direzione, girando su sé stessa velocemente. Estrassi la pistola dal retro dei pantaloni ed inizia a sparare alle bambole che mi stavano davanti, distratte dall’intervento alquanto anomalo del loro simile. La stanza immersa nel buio ed appena illuminata dalla luce rosso rame emanata da lampade agli angoli di essa divenne un cimitero di pezzi meccanici sparsi e sangue e circuiti, mentre le mie ferite superficiali andavano gettando piccole gocce di sangue. Era finito. Tutto era finito, fortunatamente. Rimasi solo con quel pussy slave dai capelli rossi, l’uno di fronte l’altro, la sua lama ancora estratta e ben visibile, luccicante e sporca di sangue sintetico. La piccola voce iniziò a parlare e in quello sguardo trovai la stessa sensazione che ebbi nel vicolo.
«Perdonami, ma non riesco a ritrarre la lama. » mi disse.
«Chi sei? » chinò la testa di lato, le labbra si mossero appena in un sorriso ampliato dallo squarcio che si estendeva dal limite del labbro per tutta la guancia destra.
«Come, non mi riconosci, Raven? »
Un qualcosa dentro di me si stava muovendo, riuscivo a sentirlo perfettamente. E venni colto dallo sconforto del dubbio al sentire quella frase. Conosceva il mio nome, ma come? Chi era veramente? Perché mi viene in mente il capo, perché mi viene in mente Anna? Possibile che si sia ritrovata per errore nel corpo di una pussy slave… e poi come avrebbe fatto… e se ci fosse entrata volontariamente magari… magari sì, avrebbe potuto! A tutto questo pensai mentre il dubbio veniva sostituito a man a mano dalla felicità nel poter comunicare ancora una volta con la mia collega scomparsa, auto-esiliatasi volontariamente nei labirinti della rete, nel flusso infinito dei dati e delle informazioni. E con la speranza, con la felicità, si nascondeva dietro un muro la possibile delusione.
«Anna? » le mie speranze furono ripagate pienamente nel vedere quella macchina muovere la testa per due volte, prima su e poi giù. Poi ancora verso l’alto. Poi di nuovo verso il basso. Mi avvicinai, a passi lenti, estremamente misurati, ma non per paura o chissà quale altro timore, quanto per la gioia e lo stupore di aver nuovamente rivisto la mia collega, sebbene in altre sembianze. «Quanto vorrei abbracciarti in questo momento… »
«Non lo farei, Raven. Per come sono combinata saresti in grado di spezzarmi a metà. Anche con un braccio solo… » sebbene il viso non riusciva a prendere espressione alcuna, mi piaceva immaginare ironia tra le righe.
«Ma tu… cosa ci fai nel corpo di una pussy slave? »
«Mi sono voluta interessare al caso che stavate seguendo in centrale.»
«Allora continui a seguire le indagini della NSA? »
«Veramente no, ma nella rete c’è stata un’improvvisa pioggia di dati a proposito di questi delitti. »
«Capisco. Ed hai scoperto qualcosa? »
«Molto, Raven. »
Erano ragazze che venivano seviziate, i cui cuori ancora pulsanti venivano inseriti in corpi artificiali e lo stesso accadeva per la loro pelle ed ogni altra loro caratteristica, cercando di restare il più fedele possibile all’originale. Le ragazze in tal modo mantenevano sensazioni emotive realmente provate in vita riuscendo al contempo a garantire prestazioni tipiche di quelle bambole sessuali, come se fossero riusciti a trasferire l’anima da un corpo umano ad un corpo cibernetico. E fatto nella maniera più sadica possibile. In tutto questo le ragazze hanno sviluppato un comportamento omicida dovuto alla presa di coscienza della forza acquisita nella loro forma artificiale, ribellandosi di fatto al sistema. Ecco cos’erano quelle sensazioni che mi colsero nel vicolo proprio mentre mi trovai davanti quella pussy slave. Quel luccichio negli occhi visto un secondo prima che Josh la facesse fuori, forse non era che la più remota traccia dell’anima che andava specchiandosi nella resina vitrea degli occhi dalle estreme profondità della sua mente. Ecco perché mi chiese aiuto. O almeno credo siano andate così le cose.
«E quindi sono andate così le cose. »
«Sì, Raven. Esattamente come te le ho raccontate. »
«E tu sei nel corpo di un androide vuoto? » vi furono pochi secondi di silenzio.
«No. Anche questo possiede un’anima. »
«E dove si trova ora lei? »
«Sta dormendo. »
«Bene. Direi a questo punto di chiamare la base ed avvisare della cosa. »
«Io però non potrò essere con te, Raven. »
«E perché? »
«Perché non faccio più parte di questo mondo. Non mi appartiene più. » non riuscivo a credere alle mie orecchie. Anna… non avrebbe mai parlato così. Ne sono sicuro. Anche quando aveva dei momenti di cedimento, momenti in cui le domande si ispessivano sempre più lasciando intravedere la vacillazione dei propri dubbi esistenziali, Anna sapeva sempre come riprendere in mano le redini. Questa… questa non sembrava la stessa Anna di qualche tempo fa. Non era la stessa Anna che conoscevo.
«Cosa stai dicendo Anna? »
«Hai capito benissimo Raven. Io non posso tornare nel vecchio livello… » parlava in un modo così strano, così lontano dalle mie orecchie. Così lontano da qualsiasi orecchio terreno.
«Cosa intendi dire con “livello”? »
«Intendo dire tutto ciò che non si trova dentro la matrice. »
«Stai vaneggiando Anna… »
«No Raven… ascoltami… » mi avvicinai incurante delle condizioni di quell’androide e la strinsi con il braccio che mi era rimasto provocando la rottura dell’arto che avevo stretto.
«Anna! » la chiamai «Anna! » le dissi «Torna in te! Queste cose… queste parole… non ti appartengono! »
«Lo so, Raven. » rispose con quegli occhi freddi «Non mi appartengono. Ma io ora non sono più Anna. Non sono più quella persona che conoscevi. Non sono più Anna, l’agente della NSA. »
«E allora chi sei, Harlequin? » il manichino mosse la testa di lato. Non sentivo più di chiamare quello strumento volgare con un nome che tanto avevo rispetto. Per me non era più Anna, maledizione!
«Ascoltami bene, Raven. Io non sono più Anna. Io non sono Harlequin. Io sono semplicemente la sintesi dei due. Io sono l’intelligenza artificiale Harlequin e sono l’uomo Anna. »
«E perché hai voluto fare tutto questo… »
«Lasciami finire… ti prego. » la mia lingua come intorpidita si ammutolì di colpo, lasciando correre gli attimi in cui quella… cosa… parlò. E le sue parole rimasero fisse qui, proprio al centro della mia testa. Fisse e immobili come impresse nella pietra, scolpite e immortalmente resistenti al tempo e alle catastrofi. «Io non ho fatto questo perché contagiata da Harlequin, no. E se hai pensato anche solo lontanamente ad una soluzione del genere, allora ti prego… dimenticala. Harlequin non mi ha plagiato. È stato tutto frutto di una mia scelta il creare una nuova sintesi con lui. Non ho alcun interesse, Raven, per la matrice. Non ho alcun interesse per il suo prodotto finale. I colori, i suoni, le parole dissolte nella rete, il flusso comunicativo nel suo complesso, ecco cosa cerco! Tutto quello che non riusciamo a vedere e ci sfugge, io nella rete sono in grado di vederlo. Laddove il Tempo e lo Spazio si annullano, laddove gli anni, i mesi, i giorni, le ore, i minuti, i secondi, non sono altro che numeri utili solo all’archiviazione dei dati, io sono in grado di comprendere nella pienezza quello che è un mondo nuovo. È il mondo dell’uomo. È il mondo della macchina. E in questa nuova identità, in questo nuovo panorama, sono in grado di vivere per sempre. In tutto questo sono in grado di trasmettere e conoscere tutto ciò che voglio. Il flusso, Raven, non termina nell’archiviazione della banca dati; il flusso continua nella rete, nelle menti, in tutto ciò che non ha gabbie o pareti o ostacoli. E quando sarò in grado di fare a meno delle sicurezze temporali di archiviazione, allora avrò fatto un altro piccolissimo passo verso la fusione con la matrice. Se un tempo la divinità era ex machina, ora è l’uomo ad essere ex aethere. L’uomo è divenuto quintessenza. Io sono la quintessenza.»
E con quel discorso, capii che non potevo comprendere. I suoi punti di vista erano cambiati, così come il suo modo di pensare, così come il suo modo di essere. Lei non era più Anna. E non Harlequin. Lei era qualcosa di nuovo, figlia della fusione tra la memoria di un essere umano con tutte le sue emozioni, gli istinti e la capacità riproduttiva, ed una intelligenza artificiale in grado di viaggiare per la rete, una AI diventata autocoscienza della propria esistenza. E forse proprio da questo voleva fuggire, Anna. Scappare dalla riproduzione in serie, dalla manutenzione del suo corpo perfettamente artificiale, dalla paura di essere un replicante al quale sono stati innestate fonti di memoria altrui e che in realtà non si risolve che in un guscio vuoto. Il suo viaggio non è che una ricerca, una formazione, una creazione di autentica identità. Ed in tutto questo non c’è posto per l’uomo, come non c’è posto per i cyborg e gli androidi. Come non c’è posto per chiunque altro. E come non c’è posto neanche per me, per Raven.
«Quindi… questo è un addio? »
«No, Raven. Gli adii sono troppo tristi. Ci siamo visti ancora una volta, proprio oggi, da quando sono andata via dal vostro livello. Dopo tanto tempo… »
«E che era anche il tuo. » provai a sorridere.
«Che era quello di Anna. » ma non c’era verso di cambiare le cose.
«Allora spero che mi verrai a far visita nella rete… »
«Non lo so, Raven. Ho molto da fare… »
«Già, la tua strada. »
«Ti chiedo però un ultimo piacere. » annuii ascoltandola solennemente. «Ora che mi disconnetterò da questo corpo, ti prego, uccidila. Te ne sarà grata. E con lei anche io. » annuii di nuovo, pensando che quelle erano state le ultime parole di chi un tempo si chiamava Anna e che probabilmente ancora dentro me continuavo a chiamarla come sempre l’avevo conosciuta. Non un addio, né un arrivederci. Ricaricai solo la pistola. E feci fuoco proprio all’altezza del cuore

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