IMPORTANTE: TRASFERIMENTO PIATTAFORMA BLOG

Posted in Uncategorized on gennaio 13, 2013 by Diego Bevilacqua

Potrete trovare il mio blog al nuovo indirizzo http://diegobevilacqua.altervista.org/ scusate per il disagio e spero che gradirete i miei futuri post al nuovo indirizzo. Col tempo lo renderò ancora più pieno. 

 

A presto!

Lo Standard Cost Model, meccanismi di diffusione in Europa (II parte)

Posted in Politica ed economia with tags , , , , , , , , , on ottobre 30, 2012 by Diego Bevilacqua

Modelli e ipotesi di diffusione dello SCM

Per quanto riguarda la diffusione dello SCM è utile prima comparare la differenza di adozione di questo modello con l’AIR, al fine anche di comprendere gli atteggiamenti e le prese di posizione in Europa.
C’è da dire in prima istanza che lo SCM – rispetto all’AIR – si è diffuso quasi istantaneamente e con alte frequenze di adozione. Esso è uno strumento di misurazione della qualità della regolazione più preciso, ma non ben integrato nel processo legislativo come invece lo è l’AIR. A tutto ciò si deve aggiungere il fatto che il modello SCM si è diffuso grazie ai networks internazionali già esistenti dedicati alle riforme regolative, e sfruttati a dovere da nazioni leader come Paesi Bassi e Danimarca (De Francesco, 2011).
La letteratura offre diverse spiegazioni sulla diffusione dello SCM panorama europeo. La prima ipotesi si basa su una sequenza di diffusione in ‘leader’ countries e ‘laggard’ countries. I primi si caratterizzano per il loro elevato grado di innovazione amministrativa, mentre i secondi sono considerabili come ‘stati pigri’ che necessitano di una spinta esterna per l’applicazione dell’innovazione (Berry e Berry, 2007). Basandoci sull’isomorfismo istituzionale, tale spinta può essere di tipo coercitivo, si pensi ai finanziamenti di sviluppo internazionale che vengono erogati a fronte dell’implementazione di determinate riforme di politica economica. Un’altra ipotesi invece può essere quella della scelta volontaria di un governo innestata da un processo di emulazione al fine di ridurre l’incertezza sugli effetti di una determinata politica pubblica (DiMaggio e Powell, 1983; Weyland, 2006). Dunque, il processo di diffusione dello SCM è avviato e sostenuto dai quei governi nazionali, i leaders, che hanno reputazione innovatrice nel settore delle riforme politiche e amministrative, dando legittimità e credibilità all’innovazione stessa.

Una seconda ipotesi verte sul ruolo cruciale che assumono i networks in un contesto di comunicazione transnazionale. Questo è il caso delle organizzazioni internazionali, delle comunità di esperti e dei think tanks (DiMaggio e Powell, 1983). L’adozione dello SCM, dunque, è dovuta all’insieme di norme e standard professionali che si formano nei network delle élite burocratiche e politiche e creano le condizioni per l’isomorfismo professionale. Per fronteggiare l’incertezza e l’ambiguità degli effetti delle politiche regolative e di better regulation, le élite nazionali perseguono la legittimità delle loro scelte, comunicando e condividendo principi e valori con gli altri membri del network professionale, l’isomorfismo professionale.
La terza ipotesi è legata all’import-export del modello da parte delle burocrazie nazionali all’interno dell’arena decisionale. In tal senso, gli attori e le dinamiche nazionali, così come la capacità amministrativa, rispetto alle élite che partecipano ai network transnazionali, hanno un ruolo cruciale nell’adottare lo SCM.

Lo Standard Cost Model, meccanismi di diffusione in Europa (I parte)

Posted in Politica ed economia with tags , , , , , , , , , , , on ottobre 29, 2012 by Diego Bevilacqua

Lo Standard Cost Model: cos’è e dove è nato

Per Standard Cost Model (SCM) si intende una delle metodologie del progetto di semplificazione per misurare gli oneri amministrativi ed eventualmente ridurli se in eccesso. La misurazione tramite il modello qui esaminato trova principalmente sede nei Paesi Bassi (a partire dal 2003) ma anche in Danimarca e Regno Unito, pionieri della diffusione e primi sperimentatori).
Prima di trattare di questo strumento di better regulation, è bene innanzitutto distinguere i c.d. administrative burdens dagli administrative costs. Entrambi riguardano gli obblighi informativi, ma con un’importante distinzione: i primi sono i costi che le imprese normalmente non attuerebbero se non fossero previste da una legislazione, mentre i secondi sarebbero comunque realizzati dalle imprese perché derivati da informazioni di rilevante importanza, anche in assenza di previsione legislativa.
Lo strumento preso qui in esame si basa dunque esclusivamente sulla rilevazione degli oneri amministrativi realizzata attraverso la consultazione di esperti ed indagini verso imprese.
Il processo di abbattimento dei costi amministrativi può essere suddiviso in tre steps principali:
1. Scomporre il regolamento in componenti gestibili che possono essere misurati.
2. Misurazione degli oneri amministrativi.
3. Semplificare il regolamento.

Nella prima fase sono identificabili tre passaggi nello specifico. Innanzitutto definire gli obblighi di informazione derivanti dalla legge; successivamente definire i requisiti di informazione che consistono negli elementi che devono essere forniti in conformità ad un obbligo di informazione; infine definire le attività amministrative che possono essere misurate.
La seconda fase (quella della misurazione) si basa su tre parametri principali, ovvero il prezzo, il tempo (richiesto per completare l’attività amministrativa), la quantità in riferimento alle imprese coinvolte nell’attività. Questi tre elementi vanno a formare la formula base dello SCM:

Costo per attività amministrativa = Prezzo * Tempo * No. imprese

Infine c’è il terzo step riguardante la semplificazione, che col tempo e la pratica si auspica porti ad una analisi non soltanto ex post e dunque successiva alla regolazione, ma ad una analisi ex ante della regolazione, in modo da prevenire e migliorare piuttosto che riparare.

A partire dal successo effettivo dello SCM (testimoniato dagli sviluppi di networks e dall’Unione stessa) nell’esperienza prima olandese, poi in Danimarca e Regno Unito, tale metodo di better regulation in tempi piuttosto rapidi si è diffuso in Europa. E’ stato adottato anche dall’Unione Europea al fine di diffondere la piu’ ampia politica della better regulation. Per far ciò, la Commissione Europea ha stabilito il raggiungimento del target del 25% a partire dal 2007 (con l’Action Programme) anche per gli Stati membri che hanno deciso di adottare tale approccio. Gli Stati che hanno adottato il modello sulla scia delle leader countries principali sono identificabili nella Germania, Francia, Repubblica Ceca, Austria ed Estonia. Contrariamente, i rimanenti Stati membri che hanno adottato lo SCM a partire dalle pressioni UE del 2007 si basano su un modello prestabilito, definito EU-SCM. La formula `contabile’ per la quantificazione degli oneri amministrativi è più intuibile dei principi e del metodo economico dell’analisi costi e benefici che generalmente caratterizza all’analisi di impatto della regolazione (d’ora in poi, AIR). Di conseguenza, lo SCM è più semplice da applicare e da monitorare, grazie all’obiettivo di riduzione del 25% (De Francesco, 2011).

Le macchine ribelli (parte III)

Posted in Racconti on ottobre 22, 2012 by Diego Bevilacqua

Mi mossi rapidamente prima da una lato, poi dall’altro, mentre le lame delle bambole impazzite sibilavano sopra la mia testa, ai miei fianchi, davanti il mio naso, e altrettanto rapidamente ero in grado di rispondere sparando colpi dalla semi-automatica d’ordinanza. Certo, non che fossi proprio in missione, però delle volte bisogna agire anticipando la burocrazia; del resto credo che mi sarà perdonata una cosa del genere se riuscirò a scoprire cosa si nasconde dietro queste macchine ribelli. Colpii in maniera precisa l’occhio di quella che mi stava di fronte, mentre nelle mie retine apparivano i puntatori di bersaglio contro le altre pussy slave che andavano scagliandosi contro di me. Ne feci fuori altre due, sparando l’una al centro del petto e l’altra staccandole con un calcio netto la testa che ora stava rotolando verso il fondo della stanza. Mi nascosi dietro una cassa lasciando cadere il caricatore vuoto che emise un suono sordo e metallico. Nel frattempo ne immettevo uno nuovo sotto il calcio dell’arma. Ho fatto bene a non portare con me Josh, non sono lavori adatti al suo cuore debole e al corpo ancora troppo umano. E anche l’arma che ancora si possa dietro… un revolver… diamine, con così pochi colpi! No, non potevo proprio portarmelo appresso. Non ne avvertii la presenza, non so se per merito del robot o per mia distrazione. Nel momento in cui uscii dal nascondiglio con un movimento rotatorio, una lama affilatissima penetrò nel mio braccio robotico staccandolo di netto all’altezza del gomito. E per fortuna non si trattava di quello che impugnava l’arma. Sparai tre colpi, rapidi, in successione, e la bambola cadde a terra dimenandosi. Col peso del corpo sul piede destro le schiacciai il cranio vedendo come si divideva in un arlecchino di fili multicolore. Dalla retina destra comparve la mappa del mio corpo indicando come il mio braccio sinistro non rispondeva più ai comandi. Mi venne da pensare che da tempo non provo più alcun tipo di dolore fisico, se non qualche leggera sensazione che non saprei descrivere in maniera precisa, come un fastidio si potrebbe descrivere; e nemmeno in questo caso percepii dolore. Colava del sangue e del liquido nerastro dal moncherino del braccio mutilato, e piccoli filamenti di rame fuoriuscivano emettendo piccole scintille. Fui un principiante, lo devo ammettere, e dovevo stare più attento, soprattutto ora che avevo un arto in meno. Ma quella stanza era piena di corpi spenti ed inermi, e difficile era prevedere esattamente da dove fosse uscita la prossima minaccia. Forse da davanti? O magari da dietro le mie spalle… o forse ancora dai lati. E quali delle tante che sono qui intorno? Il calcolatore nel mio cervello ne ha individuate circa una cinquantina solo in quella stanza, senza mettermi in guardia sul fatto che mi trovavo in una situazione alquanto pericolosa, alquanto bizzarra. Riposi la pistola e da dietro le spalle impugnai il mitragliatore che mi ero portato per l’evenienza, utile a maggior ragione proprio in quel momento, quando la situazione sembrava essere quasi ad un punto di rottura. E quando aprii la porta successiva, sparando sul computer che ne determinava la chiusura stagna, presi coscienza di quanto fosse stato stupido quell’atto eroico e militaresco che Anna mi avrebbe impedito, se fosse stata qui. Circa una ventina di robot mi stavano aspettando dall’altra parte, rapidi e letali e belli, con lame e stiletti impostati nelle braccia e nelle dita, arti prolungati donatori di morte. Il sangue mi schizzò in faccia mentre massacravo di proiettili i primi che vennero incontro. Ne feci fuori quattro ed il quinto lo colpii al centro dello sterno con il mitragliatore ormai scarico. Staccai con un paio di movimenti veloci la testa meccanica e gettai alle spalle quel mucchio di rottami. Quando mi rigirai, tuttavia, ne vidi arrivare altri due, e dietro di loro altri e altri ancora. E non avevo tempo di estrarre la pistola. Come non avevo tempo di pregare, del resto. Erano così rapidi. I corpi piccoli, gli arti meccanici agili. E io invece sono una macchina d’assalto. Una macchina di potenza. Ho fatto bene a non portarmi Josh. Sarebbe morto prima di arrivare fin qui probabilmente. E temetti fosse arrivato il mio momento.
Schivai il primo fendente ed evitai il secondo, ma l’affondo di un robot che aveva stiletti alle punte delle dita (stiletti di circa quindici centimetri) mi ferì alla guancia. Avesse mirato un po’ più su mi avrebbe staccato un occhio. Questioni di pochi attimi, pensai, giusto il tempo di rispondere a qualche colpo e di subirne qualcuno più superficiale. Poi sarebbe giunta la mia ora. Erano troppi. Maledizione, erano veramente troppi! E mentre mi ritrovavo impegnato a dannarmi l’anima per la stupidità tramutatasi in azione, colpii in pieno volto una delle macchine che avevo davanti piegandone la mascella artificiale. Furono distratti da qualcosa, tutti quegli androidi. E proprio quando iniziai a chiedermi cosa stesse succedendo, proprio quando gettai uno sguardo in fondo a quel gruppetto di venti manichini killer, vidi uno di loro farsi strada a colpi di lama. Una lunga lama che spuntava al posto dell’arto destro, circa all’altezza del gomito. Aveva i capelli rossi, la pelle bianchissima come quella di una bambina. E da lontano sentii urlare il mio nome: «Raven! » disse la voce tenue ed infantile. E poi lo ripeté ancora. E ancora. E ancora. Sempre più forte e sempre più decisa. Veniva ferito dai suoi simili ma non accennava a fermarsi, regalando colpi mortali e meno verso ogni direzione, girando su sé stessa velocemente. Estrassi la pistola dal retro dei pantaloni ed inizia a sparare alle bambole che mi stavano davanti, distratte dall’intervento alquanto anomalo del loro simile. La stanza immersa nel buio ed appena illuminata dalla luce rosso rame emanata da lampade agli angoli di essa divenne un cimitero di pezzi meccanici sparsi e sangue e circuiti, mentre le mie ferite superficiali andavano gettando piccole gocce di sangue. Era finito. Tutto era finito, fortunatamente. Rimasi solo con quel pussy slave dai capelli rossi, l’uno di fronte l’altro, la sua lama ancora estratta e ben visibile, luccicante e sporca di sangue sintetico. La piccola voce iniziò a parlare e in quello sguardo trovai la stessa sensazione che ebbi nel vicolo.
«Perdonami, ma non riesco a ritrarre la lama. » mi disse.
«Chi sei? » chinò la testa di lato, le labbra si mossero appena in un sorriso ampliato dallo squarcio che si estendeva dal limite del labbro per tutta la guancia destra.
«Come, non mi riconosci, Raven? »
Un qualcosa dentro di me si stava muovendo, riuscivo a sentirlo perfettamente. E venni colto dallo sconforto del dubbio al sentire quella frase. Conosceva il mio nome, ma come? Chi era veramente? Perché mi viene in mente il capo, perché mi viene in mente Anna? Possibile che si sia ritrovata per errore nel corpo di una pussy slave… e poi come avrebbe fatto… e se ci fosse entrata volontariamente magari… magari sì, avrebbe potuto! A tutto questo pensai mentre il dubbio veniva sostituito a man a mano dalla felicità nel poter comunicare ancora una volta con la mia collega scomparsa, auto-esiliatasi volontariamente nei labirinti della rete, nel flusso infinito dei dati e delle informazioni. E con la speranza, con la felicità, si nascondeva dietro un muro la possibile delusione.
«Anna? » le mie speranze furono ripagate pienamente nel vedere quella macchina muovere la testa per due volte, prima su e poi giù. Poi ancora verso l’alto. Poi di nuovo verso il basso. Mi avvicinai, a passi lenti, estremamente misurati, ma non per paura o chissà quale altro timore, quanto per la gioia e lo stupore di aver nuovamente rivisto la mia collega, sebbene in altre sembianze. «Quanto vorrei abbracciarti in questo momento… »
«Non lo farei, Raven. Per come sono combinata saresti in grado di spezzarmi a metà. Anche con un braccio solo… » sebbene il viso non riusciva a prendere espressione alcuna, mi piaceva immaginare ironia tra le righe.
«Ma tu… cosa ci fai nel corpo di una pussy slave? »
«Mi sono voluta interessare al caso che stavate seguendo in centrale.»
«Allora continui a seguire le indagini della NSA? »
«Veramente no, ma nella rete c’è stata un’improvvisa pioggia di dati a proposito di questi delitti. »
«Capisco. Ed hai scoperto qualcosa? »
«Molto, Raven. »
Erano ragazze che venivano seviziate, i cui cuori ancora pulsanti venivano inseriti in corpi artificiali e lo stesso accadeva per la loro pelle ed ogni altra loro caratteristica, cercando di restare il più fedele possibile all’originale. Le ragazze in tal modo mantenevano sensazioni emotive realmente provate in vita riuscendo al contempo a garantire prestazioni tipiche di quelle bambole sessuali, come se fossero riusciti a trasferire l’anima da un corpo umano ad un corpo cibernetico. E fatto nella maniera più sadica possibile. In tutto questo le ragazze hanno sviluppato un comportamento omicida dovuto alla presa di coscienza della forza acquisita nella loro forma artificiale, ribellandosi di fatto al sistema. Ecco cos’erano quelle sensazioni che mi colsero nel vicolo proprio mentre mi trovai davanti quella pussy slave. Quel luccichio negli occhi visto un secondo prima che Josh la facesse fuori, forse non era che la più remota traccia dell’anima che andava specchiandosi nella resina vitrea degli occhi dalle estreme profondità della sua mente. Ecco perché mi chiese aiuto. O almeno credo siano andate così le cose.
«E quindi sono andate così le cose. »
«Sì, Raven. Esattamente come te le ho raccontate. »
«E tu sei nel corpo di un androide vuoto? » vi furono pochi secondi di silenzio.
«No. Anche questo possiede un’anima. »
«E dove si trova ora lei? »
«Sta dormendo. »
«Bene. Direi a questo punto di chiamare la base ed avvisare della cosa. »
«Io però non potrò essere con te, Raven. »
«E perché? »
«Perché non faccio più parte di questo mondo. Non mi appartiene più. » non riuscivo a credere alle mie orecchie. Anna… non avrebbe mai parlato così. Ne sono sicuro. Anche quando aveva dei momenti di cedimento, momenti in cui le domande si ispessivano sempre più lasciando intravedere la vacillazione dei propri dubbi esistenziali, Anna sapeva sempre come riprendere in mano le redini. Questa… questa non sembrava la stessa Anna di qualche tempo fa. Non era la stessa Anna che conoscevo.
«Cosa stai dicendo Anna? »
«Hai capito benissimo Raven. Io non posso tornare nel vecchio livello… » parlava in un modo così strano, così lontano dalle mie orecchie. Così lontano da qualsiasi orecchio terreno.
«Cosa intendi dire con “livello”? »
«Intendo dire tutto ciò che non si trova dentro la matrice. »
«Stai vaneggiando Anna… »
«No Raven… ascoltami… » mi avvicinai incurante delle condizioni di quell’androide e la strinsi con il braccio che mi era rimasto provocando la rottura dell’arto che avevo stretto.
«Anna! » la chiamai «Anna! » le dissi «Torna in te! Queste cose… queste parole… non ti appartengono! »
«Lo so, Raven. » rispose con quegli occhi freddi «Non mi appartengono. Ma io ora non sono più Anna. Non sono più quella persona che conoscevi. Non sono più Anna, l’agente della NSA. »
«E allora chi sei, Harlequin? » il manichino mosse la testa di lato. Non sentivo più di chiamare quello strumento volgare con un nome che tanto avevo rispetto. Per me non era più Anna, maledizione!
«Ascoltami bene, Raven. Io non sono più Anna. Io non sono Harlequin. Io sono semplicemente la sintesi dei due. Io sono l’intelligenza artificiale Harlequin e sono l’uomo Anna. »
«E perché hai voluto fare tutto questo… »
«Lasciami finire… ti prego. » la mia lingua come intorpidita si ammutolì di colpo, lasciando correre gli attimi in cui quella… cosa… parlò. E le sue parole rimasero fisse qui, proprio al centro della mia testa. Fisse e immobili come impresse nella pietra, scolpite e immortalmente resistenti al tempo e alle catastrofi. «Io non ho fatto questo perché contagiata da Harlequin, no. E se hai pensato anche solo lontanamente ad una soluzione del genere, allora ti prego… dimenticala. Harlequin non mi ha plagiato. È stato tutto frutto di una mia scelta il creare una nuova sintesi con lui. Non ho alcun interesse, Raven, per la matrice. Non ho alcun interesse per il suo prodotto finale. I colori, i suoni, le parole dissolte nella rete, il flusso comunicativo nel suo complesso, ecco cosa cerco! Tutto quello che non riusciamo a vedere e ci sfugge, io nella rete sono in grado di vederlo. Laddove il Tempo e lo Spazio si annullano, laddove gli anni, i mesi, i giorni, le ore, i minuti, i secondi, non sono altro che numeri utili solo all’archiviazione dei dati, io sono in grado di comprendere nella pienezza quello che è un mondo nuovo. È il mondo dell’uomo. È il mondo della macchina. E in questa nuova identità, in questo nuovo panorama, sono in grado di vivere per sempre. In tutto questo sono in grado di trasmettere e conoscere tutto ciò che voglio. Il flusso, Raven, non termina nell’archiviazione della banca dati; il flusso continua nella rete, nelle menti, in tutto ciò che non ha gabbie o pareti o ostacoli. E quando sarò in grado di fare a meno delle sicurezze temporali di archiviazione, allora avrò fatto un altro piccolissimo passo verso la fusione con la matrice. Se un tempo la divinità era ex machina, ora è l’uomo ad essere ex aethere. L’uomo è divenuto quintessenza. Io sono la quintessenza.»
E con quel discorso, capii che non potevo comprendere. I suoi punti di vista erano cambiati, così come il suo modo di pensare, così come il suo modo di essere. Lei non era più Anna. E non Harlequin. Lei era qualcosa di nuovo, figlia della fusione tra la memoria di un essere umano con tutte le sue emozioni, gli istinti e la capacità riproduttiva, ed una intelligenza artificiale in grado di viaggiare per la rete, una AI diventata autocoscienza della propria esistenza. E forse proprio da questo voleva fuggire, Anna. Scappare dalla riproduzione in serie, dalla manutenzione del suo corpo perfettamente artificiale, dalla paura di essere un replicante al quale sono stati innestate fonti di memoria altrui e che in realtà non si risolve che in un guscio vuoto. Il suo viaggio non è che una ricerca, una formazione, una creazione di autentica identità. Ed in tutto questo non c’è posto per l’uomo, come non c’è posto per i cyborg e gli androidi. Come non c’è posto per chiunque altro. E come non c’è posto neanche per me, per Raven.
«Quindi… questo è un addio? »
«No, Raven. Gli adii sono troppo tristi. Ci siamo visti ancora una volta, proprio oggi, da quando sono andata via dal vostro livello. Dopo tanto tempo… »
«E che era anche il tuo. » provai a sorridere.
«Che era quello di Anna. » ma non c’era verso di cambiare le cose.
«Allora spero che mi verrai a far visita nella rete… »
«Non lo so, Raven. Ho molto da fare… »
«Già, la tua strada. »
«Ti chiedo però un ultimo piacere. » annuii ascoltandola solennemente. «Ora che mi disconnetterò da questo corpo, ti prego, uccidila. Te ne sarà grata. E con lei anche io. » annuii di nuovo, pensando che quelle erano state le ultime parole di chi un tempo si chiamava Anna e che probabilmente ancora dentro me continuavo a chiamarla come sempre l’avevo conosciuta. Non un addio, né un arrivederci. Ricaricai solo la pistola. E feci fuoco proprio all’altezza del cuore

La Balalaika

Posted in Poesie (Poems) on ottobre 21, 2012 by Diego Bevilacqua

Lenta circola la voce della notte
nelle stanze sussurrate, e nelle strade,
per le vie buie, risuona brillante il verso di una balalaika.
Sale nel cielo danzando e penetra nelle sue profondità,
incontrando le anime defunte che volentieri si intrattengono
nei caffè, fumando sigarette, bevendo vino, vivendo l’amore.
E quella voce, la voce della balalaika,
da uno spiraglio di sotto la finestra sta entrando furtiva,
e poggia la fronte sui battiti lenti del mio petto.

Ti sto sognando in questo momento,
quanto vorrei che tu lo sappia!
E quanto desidererei poterti sfiorare!

Si estende per questo arabo porto l’intenso odore delle reti,
dei pesci e del sale secco sulle barche, sui remi,
sulla pelle abbronzata dei marinai.
L’olfatto si affina come quello d’un cane, riuscendo a fiutare
lungo i muri il sesso delle puttane e il furto di denaro,
mentre a un lato, poco distante, un orfano mangia la mela.
Ancora prosegue la melodia della balalaika,
le note che sanno di assenzio, l’oppio che rapido corre per le strade
come un sorcio tra le feritoie e le fogne, una cimice nei letti d’ospedale.

E finalmente riesco a vedere i tuoi occhi,
la pelle leggera come l’aria trascinarsi tra gli spiritati
e i maledetti, le vuote proiezioni di chi
nella Realtà muore ogni giorno tra i suoi adorati mattoni,
di chi ogni giorno s’affossa in perdenti convinzioni.
A pochi passi percepisco il fresco candore bianco-latte,
il tocco della tua mano, le labbra tenere, i rapidi respiri,
il seno vivo e ansimante su di me.
Ma interrompe il suo concerto la balalaika,
la pausa infinita.

Si è destata dal mio cuore, dal mio affannato respiro,
da mio petto, la balalaika; torna eclissandosi
nella notte buia, silenziosa, a nascondersi chissà dove.
E nelle stonature dei satiri, negli amplessi e nei riti di streghe,
scende sul mio porto la nebbia, dissolvendosi con essa.
L’addio amaro va a tutto questo dunque, agli uomini dalle lunghe barbe,
alle donne ornate dell’odore del sesso, al profumo delle droghe e
al gusto dei liquori.
Alle barche, al mare.
Tu mi saluti per ultimo, angelo mio, mio destino,
mia dipendenza, mia allucinazione,
lasciando solo il vago ricordo delle tue bianche spiagge.
E un addio amaro va infine a te,
allo scordato strumento che sei, dolce Balalaika.

Discorso su John Milton: Areopagitica

Posted in Autori (Authors) on ottobre 19, 2012 by Diego Bevilacqua

Nel 1644 il Parlamento inglese ricevette uno scritto da parte dell’autore dell’indimenticato Paradise Lost. Si sta parlando di John Milton. Già noto al tempo per i suo toni critici nei confronti di una società a suo dire falsamente democratica, questo autore combatté con forza i problemi dovuti alla censura inglese sui testi scritti e contro il noto Licensing Act; la legge inglese sulla censura (Mancini, 1996).

Lo scritto in questione, il cui titolo completo è Areopagitica. A Speech of John Milton, for the Liberty of Unlicensed Printing, to the Parliament of England, è un inno al libro, visto come miniera di vita e di ragione, equiparato a Dio (Mancini, 1996).
Il piccolo saggio è diviso in tre parti principali, e precisamente:
1. Nella prima parte Milton ripercorre brevemente la storia della censura dagli ateniesi fino all’Imprimatur della Chiesa cattolica.
2. Nella seconda parte si illustrano i motivi per cui il Licensing Act non può sortire alcun effetto positivo.
3. Nella terza ed ultima parte si discutono i danni prodotti dalla norma.

Non tutto può essere affrontato in ambito di questo breve scritto, preferendo trattare di alcuni passi significativi al discorso che si vuole sostenere.
Areopagitica tratta del rapporto fra il principio di libertà ed il principio di autorità, temi a dir poco fondamentali nel periodo storico preso in considerazione e nel quale tante sono state le battaglie intraprese proprio in virtù di tale contrasto. Nel Discorso di Milton si esalta il principio di libertà affiancandolo alla diversità, la contrapposizione tra differenze politiche e morali, donando ad ogni capitolo, ad ogni periodo, ad ogni singolo lemma, il carattere universale in difesa della libertà di coscienza da esternare attraverso la scrittura. È proprio l’autore che scrive: “who kills a man kills a resonable creature, God’s image; but he who destroys a good book, kills reason itself, kills the image of God as it were in the eye”. Senza tradurre alla lettera, ma estrapolando il concetto, Milton sta cercando di dirci quanto grande può rivelarsi la forza di un libro, soprattutto se si tratta di un buon libro! È proprio in quest’opera che l’autore sviluppa due concetti fondamentali della sua filosofia: il free market place of ideas visto come il luogo dove si può trovare il prodotto culturale adatto ai propri bisogni quasi fosse un mercato di libero consumo dei beni; ed il self right principle, secondo il quale è inutile vietare alle idee sbagliate o malvagie di essere diffuse, poiché esse saranno sconfitte dalla forza della ragione. Questo stesso principio, per molti aspetti, può considerarsi l’idea più radicale e più rivoluzionaria del liberalismo, il principio che darà poi avvio al processo di formazione del giornalismo liberale. Tuttavia il self right principle non concerne soltanto la scoperta della verità grazie al libero confronto di opinioni, ma va ben oltre, attribuendo grande responsabilizzazione individuale nel saper scegliere e nello scegliere giusto (Mancini, 1996).
Vediamo ora qualche considerazione sul Discorso di Milton.

Nella sezione riguardante l’appello al Parlamento inglese, proprio alle prime pagine, Milton colpisce profondamente con un ragionamento quanto mai illuminato: “la libertà che noi possiamo sperare non è infatti che nessuna lagnanza abbia mai a levarsi nello Stato […] ma che quando le lagnanze sono liberamente espresse, attentamente considerate, e prontamente rimediate, allora quel limite estremo di libertà civile che gli uomini ragionevoli s’aspettano viene raggiunto”. La libertà civile da Milton viene letta come quel confronto all’interno di uno Stato per raggiungere obiettivi e soluzioni in maniera ragionevole, scartando quelle idee inopportune al fine di giungere alla verità. È, in altre parole, un contesto molto vicino al “contratto sociale” di Rousseau, dove il concetto di democrazia non si esaurisce nella mancanza dei problemi nello Stato, ma nel dialogo per trovarvi rimedio. Un dialogo onesto, un dialogo democratico.

Passiamo ora alla sezione riguardante i libri e al significato profondo che gli attribuisce Milton in proposito. Si può leggere dall’Areopagitica che “i libri non sono per nulla cose morte, bensì contengono in sé una potenza di vita che li rende tanto attivi quanto quello spirito di cui sono la progenie”. Si sente lo spirito, in queste parole, di autori lontani eppure tanto vicini, allo stesso modo di alcuni autori contemporanei. “Ecco il potere di un libro, ecco il potere della letteratura!” sembra affermare Milton. Se le miliardi di pagine scritte hanno donato immortalità a figure mitiche, a personaggi fantastici e che sono entrati nei luoghi comuni di oggi, se le miliardi di pagine hanno donato immortalità ad autori e luoghi del mondo, la stessa cosa l’hanno fatto per i diritti fondamentali, che odorano di carta antica ma che ancora oggi sono più che attuali. Una voce che non può essere placata e che nessuno può ammutolire, perché distruggendola (parliamo della voce della cultura e dei libri) si rischia di “uccidere un’immortalità” per usare le medesime parole dell’autore inglese. È questa la forza delle parole, è questa la forza della letteratura e dell’arte: concedere ad ogni cosa il proprio spazio di immortalità. Proprio come affermarono Shakespeare, Bacon (The Advancement of Learning, 1605) e molti altri ancora.

La terza sezione si focalizza sul particolare della censura e di come essa impoverisca non solo la cultura, ma anche la religione. Milton afferma come “tutte le opinioni, gli errori persino, […] sono di utilità e aiuto essenziali al conseguimento di ciò che è più vero”, parole dove trova sfogo il precedentemente citato self right principle. Nelle parole dell’inglese si può leggere l’importanza non solo dell’errore come possibile passo verso la verità, ma anche l’importanza delle esperienze. In merito non esistono esperienze buone o cattive, poiché la conoscenza non può, afferma Milton, “corrompere” (e con essa non possono corrompere i libri) “se la volontà e la conoscenza non siano corrotte”.
L’umana virtù nasce dalla conoscenza e dallo studio del vizio, dall’analisi dell’errore e dalla conferma della verità che si può ampliare a dismisura proprio grazie all’esperienza! Ecco perché evitare di astenersi è la mossa più congeniale alla ricerca della verità, ecco il beneficio che si può trarre da una lettura promiscua di libri! Se Milton considera la ragione come scelta, come essenza del libero arbitrio concesso da Dio all’uomo, come potrebbe mai spiegarsi la censura posta sui testi considerati offensivi? E anzi, proprio quei libri considerabili come contaminatori della vita dell’uomo, non possono venire soppressi senza evitare un decadimento del sapere. Giunti a questo, sento il peso (voluto, intendiamoci) di dare un senso “matematico” al ragionamento di Milton, descrivibile dall’equazione:

Esperienza = Virtù + Vizi

dove: Esperienza = Conoscenza

Questo sta a significare, a mia modesta interpretazione, come la verità non sia altro che la somma di ciò che nella società sono considerati i vizi e le virtù. Ecco perché (sempre a mia personale lettura della filosofia di Milton) la verità corrisponde al livello di esperienze realizzate – in termini di letture promiscue – e di conoscenza acquisita, le quali si identificano tra di loro. La verità quindi è funzione dell’esperienza/conoscenza

Verità = f(Esperienza)
o
Verità = f(Conoscenza)

In conclusione, Milton sembra voler affermare come l’uomo abbia a disposizione tutte le possibilità di arrivare al raggiungimento della verità, qualunque essa sia, poiché essa nasce dalle esperienze vissute, dalla conoscenza acquisita. Tutti i poteri che cercheranno di tarpare le ali all’opinione e alla libera informazione, non sono altro che poteri autoritari dispotici, poteri che si nutrono dell’ignoranza del popolo che governa. E in questi tempi moderni, non ci potrebbero essere autorità più infime e crudeli, poteri non manifesti, poteri occulti, tendenti a mantenere in uno stato vegetativo la volontà e la capacità combattiva di popolo, che purtroppo sembra vada assopendosi sempre più. E dunque che rinasca la lotta culturale, quella del risveglio delle coscienze, quella che molti altri prima di noi hanno intrapreso con tanto fervore e trasporto, perché quello che è stato lo è anche adesso e lo sarà sempre; allo stesso modo di chi gettò le basi delle nostre coscienze.

Preghiera al Creatore

Posted in Poesie (Poems) on ottobre 19, 2012 by Diego Bevilacqua

Risplenderemo di luce propria,
e saremo eternamente belli
nell’infinito cielo blu.

Non posso, e il sol pensier mi rattrista,
lasciar annegare la Vita cullata tra le tue braccia.
È combattere, è soffrire.
È vivere e abbracciarsi.
È sostenersi in un mondo tenebroso.

Amara come i limoni,
si rivelerà fresca e impetuosa, raggiante,
la raison d’être della realtà.
E laggiù, Angelo di Dio,
c’è qualcuno che m’aspetta,
qualcuno che piange per me.

Il momento di dirci addio è giunto,
emissario del Creatore,
sopra queste terre, le decadenti città,
qui ai confini dei cieli, addio!
Ché laggiù, tra le macerie del muscolo pulsante,
la mia creatura celeste sta ad aspettare.

E non prenderla come un’offesa,
poiché più grande l’avrei fatta al mio spirito,
se alla mortalità dei suoi seni
avessi scelto l’immortalità, le bellezze,
del Paradiso.

Le macchine ribelli (parte II)

Posted in Racconti on ottobre 19, 2012 by Diego Bevilacqua

La fenomenologia dello spirito è la storia romanzata della coscienza che via via si riconosce come spirito
G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito

In qualche parte non specificata, all’interno della matrice dove il flusso di dati corre libero come un fiume, e dove non esiste connessione temporale.

«Era un caso che mi interessava, devo ammetterlo. Tutte quelle bambole ribelli, quella serie di omicidi che si stavano susseguendo anche a grande distanza e il cosa potrebbe aver causato questa follia. Non mi pare di aver percepito la presenza di nuove infezioni virali nella matrice del resto. Un hacker è da escludere e ne ho avuto conferma proprio qualche giorno fa nella chat internet globale. Se non ricordo male un tizio disse… robot1 apri la cartella del giorno 11/9/2012… sì, eccolo qui. Chiesi ai membri della chat cosa ne pensassero dei nuovi omicidi, se vi fosse qualcosa che si stesse muovendo dietro le quinte. Dedalus23 rispose precisamente – non credo si tratti di un hacker. Non sembra colpire una qualche particolare fazione governativa – e devo ammettere che ha le sue ragioni questa tesi. – e perché dovrebbe proprio colpire una fazione governativa secondo te? – nella chat mi chiamo Matrix241 – Matrix 241, conosco molto bene la realtà hacker! Seguo continuamente i vari movimenti del resto 😉 – ecco un tizio che si sarebbe rivelato utile anche in futuro. A detta di Dedalus23 dunque non poteva trattarsi di un attacco pirata della rete, ed infatti i bersagli sono stati sia uomini comuni che facoltosi, anche se per la raffinatezza ed i costi elevati di quella specifica tipologia di androidi, i secondi sono per ovvie ragioni i più soggetti a vizi del genere; i più esposti al pericolo attuale. Non vi era alcun tipo di distinzione di classe o sesso. Era come se quelle macchine avessero ricevuto in qualche modo l’ordine di uccidere i propri clienti, se non qualche bersaglio specifico… ma in fondo anche questa ipotesi del bersaglio specifico la escluderei, dato che alcuni di loro non erano coinvolti in nulla più che qualche multa non pagata. La rete è così vasta e complicata che mi ci volle un po’ per abituarmici, tutto questo bianco splendente alternato a vivacissimi colori rosa e celeste e blu più scuro e rosso. Questo è il mondo della libertà, dove si può viaggiare svincolati dalle regole, anzi soggetti solo a quelle del proprio spirito e della rete: le regole matematiche. Ho visto così tante belle cose, vissuto così tante esperienze, sempre più grandi. Cose precluse ai più, sottratte allo scibile dei pavidi e dei mentalmente castrati dalla società. Pensare che anche io un tempo ero così… quel giorno in cui inseguii quel rivoluzionario per i tetti della città fermandolo dopo appena una fuga di dieci minuti. O sei con lei o contro di lei. La società avrebbe vinto sempre. E con lei anche io avrei vinto sempre. Io che proteggevo proprio quella società nella quale più non mi riconosco. Già, anche io ero così. Anche io ero mentalmente castrata. Eppure non potevo restare così a lungo, in quella sfera di cristallo dove ogni cosa sembra avere un senso… il senso unico e indistinto, monocolore, atonale. Eccomi qui, dove non esistono spazi, dove il tempo non è mai nato, semplice unità di misura per archiviazione dei dati raccolti. Tutto il resto… tutto il resto si risolve in un flusso di informazioni, un flusso di conoscenze, un flusso di coscienze. Posso entrare ovunque, bussare alla porta di chiunque, prendere in prestito un corpo collegato alla rete e che presenta una scheda di memoria; posso accedere ai suoi dati, ai suoi ricordi, ai suoi sentimenti, posso modificarli a mio piacimento senza lasciare traccia di me ed in questo Harlequin era un maestro. Ne posso tuttora sentire la presenza ogni volta che osservo le mie dita eteree, le mani evanescenti che non ci sono più, le mie braccia impalpabili che non ci sono più, volatilizzate. Eccolo qui, l’androide. L’ho individuato. Che reazione strana. Sembra essere difettoso. Reagisce. Credo che correrò il rischio, sono così curiosa del resto, è più forte di me! Da quando navigo dentro la matrice tutto appare di un rinnovato fascino artificiale. Attraverso precisi ordini, lentamente e facendo attenzione a possibili contaminazioni virali (visto il pericolo di una possibile compromissione della mia memoria e della mia identità), scesi nel mondo reale sotto forma di un androide pussy slave. Aprii i suoi occhi trovandomi collegato ai fili di un’alimentazione per completare la ricarica delle batterie, oramai al 95%. Portai poi la vista alle mani piccole e dall’aspetto delicato, mi volsi poi allo specchio su in alto che faceva da soffitto e vidi che era un meraviglioso pussy slave. Raramente ho visto esemplari così ben realizzati e neanche io ne ho avuto mai uno di tale manifattura! Così bello e verosimile all’essere umano da sembrare vivo. Ma una cosa mi fece sorgere un dubbio, una domanda che si avvicinava molto più ad una sensazione. Si trattava, probabilmente, della reazione improvvisa che percepii in appena un istante, la stessa reazione che mi portò a prendere in considerazione l’entrata in contatto con quell’androide. Sentivo come un respiro, un battito dentro quel guscio di materia artificiale e fili e plastiche e circuiti, quel respiro e quel battito che fanno parte della razza umana. Scesi ancora più giù di livello, fin nelle profondità della memoria e fu lì che vidi come una città sconosciuta alla mia memoria. Cercai poi di mettermi in contatto con la rete per identificare quelle costruzioni usando ogni mezzo a mia conoscenza, ma i tentativi furono vani, ritrovandomi come segregata in quel mondo, in quell’universo parallelo che nulla aveva a che fare con quello che conoscevo né tanto meno con la matrice. Alti palazzi si ergevano da entrambi i lati, palazzi completamente in vetro, e case e un fiume che scorreva quieto sotto un ponte di legno e giardini silenziosi e quant’altro. Tutto estremamente silenzioso e solo. Non potevo viaggiare nella matrice come non potevo utilizzare una connessione remota ad essa, e ogni tipo di collegamento al mondo esterno mi era come impedito da chissà quale fonte di energia. Era la prima volta che mi ritrovai ad essere più concentrata del solito, nel mio nuovo corpo avente le sembianze di una tigre antropomorfa, dai capelli neri ed il naso felino più largo e roseo, dagli occhi gialli e le rapide pupille nere, gli arti particolarmente sviluppati, la pelle marronegiallo, completamente nuda. E sebbene non potessi in qualche modo mettermi in contatto con quel mondo di cui ora facevo parte, potevo sempre far leva sulle mie forze e l’esperienza acquisita circa gli universi alternativi. Questa volta però sembrava diverso, una creazione ben lontana dal semplice amalgama di dati e calcoli. Era un raro e prezioso caso di bolla di simulazione, una realtà creata all’interno di un universo. Un matematico e fantastico sottoinsieme. Lontano, ad ottocento metri, potevo sentire dei passi leggerissimi, lo sguardo e la presenza di qualcosa o qualcuno. Mi ritrovai in un istante davanti a lei, davanti quella ragazza dai capelli rosso vivo e dai verdi occhi, bianca come la carta e coperta di adorabili lentiggini, senza traccia di sorriso. Ed era identica alla pussy slave. – Come hai fatto a trovarmi? – mi domandò con la voce ferma e tiepida. – Ho esperienza da vendere. Tutto è molto più facile quando il Tempo e lo Spazio sono misure potenzialmente personali. – sollevò gli occhi verso di me – Personali dici? – annuii e sorrisi mostrando i denti bianchi e ne ricevetti dei complimenti, soprattutto per quello che riguardava il mio corpo.
13/9/2012 chiesi a quella ragazza dove fossimo, a chi apparteneva quel mondo così strano.
«Appartiene a me. »
«Come fa ad appartenere a te? »
«Perché è il mio mondo. »
«Non puoi collegarti alla matrice da qui? »
«Ci hai provato, vero? »

L’aveva capito. Aveva capito che tentati di collegarmi in ogni modo al virtuale ma, ahimè, fu tutto vano. Soltanto dopo che la vidi sorridere, osservandomi sempre dal basso verso l’alto con i suoi occhi color verde cristallo-smeraldo, meravigliata ancora di chi aveva davanti, e dopo che batté le mani per una, due, tre, quattro volte, presi coscienza finalmente del luogo dove realmente mi trovavo. E soprattutto a chi apparteneva tutto quello.
«Questo mondo è la mia anima! »
«La tua anima? Tu non sei un androide? Come hai fatto a sviluppare un’anima in maniera così profonda? Soltanto Harlequin è stato in grado di fare una cosa del genere… »

«Non l’ho creata. »
Mi ritrovavo nel corpo di un androide, un androide che possedeva un’anima ipersviluppata. E che ha creato.
«E chi te l’ha donata? Possiedi una scheda di memoria? »
«No, il discorso è diverso. È strano. Troppo strano e troppo… cattivo. »
Ora sì che mi stavo interessando sempre più a questa storia.
«Sono qui apposta. Sono qui per te. »
«Signorina tigre »

Mi chiamò così, e dovetti ammettere con stupore che mi piaceva quel termine. Signorina tigre.
«io ero un essere umano. »
L’ultima volta che mi si gelò il sangue, o che perlomeno ebbi quella strana sensazione, fu quando Harlequin mi propose di unirmi a lui. L’udire quell’entità (agglomerato di dati e messaggi elettronici che necessitava di un corpo per poter continuare a vivere) farmi una richiesta del genere mi disorientò non poco, lo devo ammettere. La volta in cui la voce metallica del corpo artificiale infestato da Harlequin scandì le parole – ho bisogno di te – fu così maledettamente incredibile… lui che in qualsiasi momento poteva prendere possesso del mio corpo (anche se con difficoltà ammise poi), aveva bisogno del mio consenso per potersi evolvere, per poter sopravvivere in eterno finché il cuore pulsante di dati della matrice avrebbe retto. Ed io sarei vissuta con lui. Sotto un altro aspetto, sotto un’altra identità e altra coscienza. Anche stavolta, come quella volta, provai la medesima sensazione di straniamento, di incertezza.
«Non ci credo. Non è possibile. »
«Io non ero un androide. Io ero un essere umano. »

È a questo punto che le cose si fecero particolarmente interessanti sotto ogni punto di vista e andavano prendendo una piega diversa.
«Cosa intendi dire? »
«Avevo tredici anni quando sono stata rapita. Le giuro che non ho mai avuto così tanta paura nella mia vita! Si avvicinò a me una macchina nera mentre stavo tornando dalla palestra dopo una lezione serale, e da quella macchina uscirono uomini con il volto coperto e mi rapirono. Una volta che mi ebbero portato dentro un casale, mi sottoposero ad una operazione. Sentii un dolore lancinante, e non riuscivo ad urlare. Con una lunga e robusta tenaglia mi fu strappata la lingua. Tagliata con due grandi forbici. Potevo vedere tutto. Potevo vedere il mio cuore estratto e ancora pulsante e tutto il resto dell’intervento. Parlavano di fare attenzione, di tenere il minimo tenore di sopravvivenza. Li sentivo discorrere del mantenere la risposta emotiva, ma non riuscivo veramente a capire tutto quello che stavano per dire. La pelle mi veniva strappata lentamente e il sangue colava dai bordi del tavolo, e avevo l’impressione di poter udire ogni singola goccia toccare terra e fare tic! Tic! Tic! Il mio cuore, signorina, batteva a pulsazioni lente, e gli occhi lentamente si chiudevano appesantiti, sentendomi come addormentata, come in preda ad attacchi di sonno. Tutto il mio corpo, dalla testa i piedi, venne privato della sua pelle. E riuscivo a sentire tutto quel dolore senza poterlo urlare. »

E dunque era una ragazzina di appena tredici anni. Le sue sevizie, chi mai avrebbe potuto fare una cosa del genere? E tutto ad un tratto, immersa nella storia e in quel mondo così diverso ed isolato da tutto e da tutti, sentivo provenire da oltre quelle nuvole fittizie, nel cielo fittizio, dei colpi d’arma da fuoco miste ai movimenti di un combattimento. Era il momento di andare, qualunque cosa ci fosse stato dall’altra parte, sentivo di dover intervenire. Puntai dunque i miei indici all’altezza del petto di quell’anima, segregata nel corpo di un androide, e non appena le sfiorai i seni essa cadde a terra senza il minimo rumore. Completamente padrona di quel corpo così tanto sfortunato, salii nel livello più superficiale prendendo il controllo dei movimenti e dei pensieri, ritrovandomi dopo tanto tempo nella vecchia realtà. »

Le macchine ribelli (parte I)

Posted in Racconti on ottobre 18, 2012 by Diego Bevilacqua

Un robot non può recar danno a un essere umano
né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento,
un essere umano riceva danno.

Isaac Asimov, prima legge dei robot

Aveva appena smesso di piovere come fu terminata l’irruzione delle forze speciali nella casa di piacere Red Queen, nella 57esima strada. Un altro caso, questa volta schifosamente più grande. Già qualche giorno fa una pussy slave aveva fatto fuori il suo padrone massacrandone il corpo a colpi di coltello, in una città a circa tre chilometri da qui. Un caso isolato, si pensava. Ed ora eccoci qui, con tre uomini sui cinquanta anni di età fatti a pezzi dallo stesso tipo di androide. Tre uomini facoltosi appartenenti all’alta società americana, di solito i maggiormente disposti a scappatelle virtuali al riparo degli occhi delle mogli. Avevo appena messo la sicura all’arma in quel momento, riponendola nella fondina al mio fianco sinistro, quando Josh mi chiamò da dietro. Saranno passati circa cinque mesi da quando Anna se ne andò chissà dove. Anna, la collega più fidata, il membro migliore della NSA. È stata una storia strana, molto strana a dire la verità. E le sue considerazioni, le sue paure… quella sua ricerca e quel senso di libertà… proprio non le capisco. E non credo che le capirò mai veramente. Tutta questa grande differenza tra essere umano e cyborg, sinceramente, non la vedo.
«Non sembra ci sia altro qui nei dintorni, Raven. » disse Josh avvicinandosi a me.
«E la scientifica? »
«Sta arrivando. » aveva da poco ricominciato a piovere sebbene a gocce intermittenti, ma decisi comunque di chiudermi in macchina assieme a Josh. Lui era un po’ più simile ad un essere umano. Non aveva protesi dal punto di vista fisico, se non il braccio destro che andò perso a causa di un’esplosione ed il collegamento celebrale per la rete internet. Voltandomi verso di lui chiesi cosa vide in quel locale una volta che intervennero le forze speciali.
«Ti faccio vedere. » rispose. Prese vicino il cambio dell’auto il cavo di collegamento, inserendo uno dei due lati nell’apertura nascosta dietro un piccolo lembo di pelle artificiale. La stessa entrata che ci permetteva l’ingresso ad internet viene anche utilizzata per sincronizzare due o più menti insieme, ed oggigiorno si può dire che serva unicamente a quello, visto le connessioni remote alla rete. Ma come detto poco prima, Josh era ancora un umano… “antiquato”, un po’ vintage, quasi a dire un pezzo raro della collezione NSA. Mi voltai sentendo il cavo freddo entrare nella fessura ed un guizzo di corrente passò lungo i nervi cervicali fino a dietro la nuca e poi tutto il cranio artificiale; le nostre menti erano perfettamente collegate.
«Spero ci sia qualcosa di interessante. » con quel sistema ero in grado di vedere i ricordi della mente di Josh su un qualsiasi episodio della sua vita che lui stesso volesse mostrarmi. È un po’ come scambiarsi dei file del resto.
«Direi abbastanza interessante. Le stanze coinvolte presentavano tutte segni di violenza, Raven. I membri della NSA hanno fatto fuori le ragazze robot impazzite, visto che hanno cercato di attaccare anche loro. »
«E per quanto riguarda i clienti? »
«Uno di loro aveva la testa staccata a morsi, e l’androide ha infierito sul resto del corpo aprendolo sul davanti, sventrandolo letteralmente e strappando frammenti di intestino. Il secondo androide ucciso da un primo rilievo sembra abbia spaccato il diaframma della sua vittima e staccato le dita una ad una, che ha utilizzato per trafiggere i bulbi oculari dell’uomo. » le immagini si potevano vedere nitide, come se avessi avuto davanti la scena vissuta dal mio collega. Il sangue colava ovunque ed era schizzato sulle pareti color avana della camera a luci soffuse. Il colpo ricevuto dal defunto gli aveva lacerato completamente il petto mostrando le costole ed il diaframma spezzato con frammenti ossei nei polmoni e a livello di organi interni. Un dito con anello a pietra incastonata fuoriusciva dall’occhio della vittima.
«Il terzo uomo invece è quello che ha ricevuto probabilmente il minor numero di sevizie inflitte. » soggiunse Josh.
«Che vuoi dire? »
«Che è stato tagliato a metà all’altezza della vita. Ed è stato rescisso l’organo sessuale. » era un taglio netto, quasi unico e chirurgicamente preciso, mentre il membro sembrava esser stato asportato via coi denti e i testicoli correvano lungo la camera, vicino al corpo, fuori dalla sacca scrotale. Josh tolse il cavo una volta terminati i ricordi, lo rimise al suo posto e si rivolse a me mentre accendevo l’auto.
«Raven, chi sono quelle ragazze? Ho sentito parlare altre volte di pussy slave, ma non mi sono mai informato realmente. »
«Le pussy slave sono androidi che fungono da schiave sessuali, entrate nel mercato da poco tempo a questa parte. Servono a soddisfare ogni bisogno sessuale che gli viene richiesto, dal rapporto preliminare, al rapporto consueto, al sadomaso. Tuttavia questi androidi presentano un limite, Josh. Non possono uccidere. »
«Hanno più o meno la stessa funzione delle bambole gonfiabili? »
«Sono molto meglio delle bambole gonfiabili, ragazzino. Sono create con alta tecnologia, molto realistiche. Nei modelli più costosi vi sono percentuali di pelle fatte con cellule staminali. Sono giocattoli particolarmente complessi e precisi. »
«Sì, Raven, ma se non possono uccidere, allora perché lo hanno fatto?»
«Se lo avessi saputo avrei da tempo risolto questo caso, non credi? »
«Sì, ma pensi sia opera di un virus? O di un hacker? »
«Non lo so, Josh, ma scarterei l’opzione virus, almeno in parte. Non sembra ci sia un collegamento tra il primo caso e quest’ultimo. »
Guidammo verso la centrale per poter fare rapporto, cosa che avrei lasciato fare a Josh, visto che non sono mai stato bravo con le parole. Nel frattempo aveva preso a piovere a ritmo costante, con la gente che correva da un lato all’altro della strada cercando di fermare il primo taxi libero che riuscivano a trovare. E mentre la pioggia cadeva lenta, quasi incessante, una pioggia che insisteva da giorni sulla nostra zona, sulle nostre teste, sulle nostre anime, casualmente posai lo sguardo nel vicolo a sinistra dove qualcosa mi colpì come un lampo. Lontano, proprio in fondo a quella stradina, parzialmente illuminato dal neon fioco di una rosticceria, un corpo pallido si trovava gettato tra le buste nere dei rifiuti. Del resto però mi fu facile vedere da lontano, portare il meccanismo oculare che mi è stato installato nella modalità zoom e vedere cosa ci fosse effettivamente di tanto interessante nel fondo squallido e scuro.
«Josh, quanti erano gli androidi? »
«Ne sono stati trovati tre. »
«Ma erano veramente tre? » non attesi risposta, e sinceramente non mi importava nulla di quello che potesse dire Josh, gettandomi invece fuori dalla macchina incurante delle auto dietro di noi, della pioggia e di tutto il resto. Avevo in mente soltanto quel caso, ma non riuscivo a spiegare esattamente il perché. Lungo quel vicolo, tra la spazzatura, le carogne dei topi e i passi rapidi di quelli vivi, corsi per raggiungere il corpo della pussy slave nella speranza di trovare risposta alle domande che Josh stesso mi aveva fatto poc’anzi. E che mi avrebbero fatto anche i superiori del resto. Anna, perché te ne sei andata? Almeno con te sembrava tutto così facile. Arrivai alla fine della strada che ancora la pioggia stava scendendo, sebbene più lentamente, e vidi, tra la penombra e la luce fredda di quel neon alla mia sinistra, posto sopra la porta sul retro della rosticceria araba, un androide votato forzatamente a soddisfare i più perversi bisogni sessuali. Aveva la pelle estremamente pallida, come la morte, e non sembrava aver ricevuto alcun tipo di trattamento per colorarne la pelle. Eppure sembrava così vero nella sua freddezza e nelle morbide curve della pelle, una bellezza quasi funebre eppure fresca, come una ragazza che neanche ha raggiunto la maggior età. Potevo vedere l’occhio sinistro di un azzurro vivo e la pupilla spenta senza segno di anima. Non era come l’occhio di Josh, o di Anna, o di chiunque altro potessi conoscere, ma si trattava di uno sguardo anonimo dove altro non si poteva percepire che un vuoto abissale e maledetto. Ma il colore di quell’iride, Dio, quanto sembrava vero! Gli occhi di vetro utilizzati per gli androidi di questo tipo sono molto simili ai colori originali, gli si avvicinano moltissimo, però gli occhi di questo pussy slave erano anche fin troppo reali, se non fosse stato appunto per quel dettaglio funereo. Ci pensai bene, riflettei, cercai di rimembrare nella scheda della mia memoria, visto che poche parti del cervello erano rimaste realmente quelle che possedevo fin da bambino, fin dalla mia nascita. Guardai e riguardai le immagini di Josh facendo attenzione ai corpi degli androidi crivellati dai colpi delle forze speciali, sporchi di sangue e pezzi lacerati di carne ed organi ed ossa spezzate. Sì, prima non lo avevo notato. Non avevo notato come fossero così… vive!
La pelle liscia e bianca, i capelli biondo oro chiarissimi e serafici, i lineamenti dolci. Tutto così reale, forse anche troppo reale. Allungai la mano verso quella bambola sessuale, la allungai verso il lato illuminato del volto e non posso nascondere come un certo sentimento di paura, un’angoscia che stava salendo sempre più dal profondo del diaframma alla gola. Lentamente quel corpo meccanico che sembrava morto, spento del tutto, si mosse sollevando il capo, e ancora una volta non riuscii a percepire alcuno scampolo di luce dal profondo di quelle pupille. Sempre molto lentamente, l’androide piegò la testa dalla parte illuminata mostrando completamente il volto. Era così bello, di sicuro un pussy slave come mai avevo visto; di sicuro uno dei migliori. «Aiutami. » mi disse con voce delicata e fin troppo umana, così speculare ad essa, ma non riuscii a rispondere, non seppi reagire. «Aiutami. » ripeté. Erano o no effettivamente programmati per dire questo? Non riesco ad immaginare una cosa del genere, un’espressione tanto umana dove di umano non ci sarebbe dovuto esser nulla. «Vi prego, aiutatemi. »
Allungai la mano verso quella cosa, non sapendo come chiamarla in altro modo. Un androide con un’anima. Allungai la mano verso quel corpo, e dal volto scesi all’altezza del seno, senza ancora toccarla. L’altro portò le mani sul vestito succinto e sensuale, sul vestito da prostituta e lo strappò via con una semplicità estrema, mostrando il seno piccolo e giovane. La toccai sfiorandone la pelle al centro del petto e potevo sentire il derma liscio e leggermente ruvido. Vero come la pelle umana, una pelle ancora non corrotta da alcun passaggio o frammento metallico, una pelle che non ha ancora subito alcun intervento. Era pelle vera! Vera vi dico! E come impazziti i miei sensori visivi evidenziarono le varie zone del corpo stabilendo come tutto quello sembrasse così troppo verosimile ad un essere umano. E fu questione di pochi secondi, il tempo per quella cosa di travalicare i limiti e aprire le proprie viscere, mostrando gli organi interni meccanici ed una sostanza simile al sangue umano scorrere lungo la pelle e le vesti strappate, rimaste in parte sul corpo ed in parte a terra. E mentre tenevo gli occhi su quelle ferite auto inflitte, non mi accorsi del volto che nel frattempo si era aperto mostrando lo scheletro di titanio, i denti in ceramica e tutto il resto; che si gettava contro di me.
Da dietro udii provenire due colpi forti, coi proiettili che andavano incassandosi nel volto dell’androide, o di qualunque cosa fosse.

Ofelia (o ai morti d’amore)

Posted in Poesie (Poems) on ottobre 17, 2012 by Diego Bevilacqua

Ecco del rosmarino; è per memoria.
Non ti scordare, amore;
e qui le viole, per i tuoi pensieri.
(Amleto, atto IV – scena V, William Shakespeare)

Piange questo cuore contemplando la drammatica scomparsa,
o dolce Ofelia, tu che sei distesa sulle acque eterne,
tu che intoni dolci melodie amare.

Perché, amore, hai donato l’ultimo soffio a tutto questo?

Hai portato con te tutto il dolore,
e ne hai avvelenato i laghi e i mari e gli oceani
pallida Ofelia, bianca come i gigli,
fantasma senza respiri.
Le ninfee, come puoi vedere, piangono intorno, delicate vedove,
ed i salici, che tanto gradirono la tua presenza, le carezze
sulla loro pelle, sono chini sui giovani seni.

Pallida Ofelia, bianca e tenera come la neve,
ti ha sciolto il calore della passione, l’Amore infingardo,
e per lui l’oscuro Oblio ha straziato il tuo sguardo azzurro!

E ora non hai più di che soffrire, fiore gettato via
che darai battito a nuove forme di vita,
alle nuove anime che, dentro il cuore,
i ricordi, i gesti, i sogni,
non potranno far altro che baciare quei polsi
racchiusi nei lunghi veli.